
Perché può dare la possibilità di ridimensionare non solo il dolore, ma anche il proprio ego attraversato dal dolore.
Quando si provano certi dolori non sempre si diventa più saggi, più connessi.
Il dolore rende più egocentrici di quanto non siamo già per condizione. Il dolore può frammentare, separare nel tentativo estremo di isolarsi per trovare una zona ristretta di sopravvivenza.
In Egoland (cit.) il dolore rende ancora più autocentrati con l’effetto di costruire un cortocircuito che si autoalimenta di se stesso.
Per questo più di ieri, oggi abbiamo bisogno dell’AMA per decentrarci innanzitutto dal nostro dolore, ascoltando il dolore degli altri: sì proprio così, sembra un effetto magico, ma i dolori quando entrano in contatto tra loro, con la possibilità che l’altro rappresenta (essendo in un momento diverso dal tuo), si addomesticano. Non passano del tutto, lasciano tracce. Il dolore deve essere legittimato, riconosciuto, accolto, ascoltato, tradotto e canalizzato. Talvolta il gruppo non è sufficiente, perché taluni dolori spaventano: si ha paura di dimenticare.
Allora bisogna cercare le forme della memoria opportune che aiutino a fluire nella propria vita senza diventare vittime di se stessi e delle proprie vicende.
L’AMA aiuta in questo processo di riorientamento della propria via, per la sua dimensione collettiva, offrendo una molteplicità di versioni del dolore, ma anche di modi di attraversarlo, di sperimentazione di nuove soluzioni e nuovi adattamenti.
Per questo l’AMA è prezioso. Per questo l’AMA offre qualcosa di peculiare: ripristina quella dimensione comunitaria andata persa dal boom economicoegoico dell’Occidente ad oggi.
Ricordo sempre con grande piacere i momenti di convivio con i partecipanti dei Gruppi Ama a cui ho partecipato decine di volte dal 1999 ad oggi.
Ciò che si respira in quei momenti è difficile da tradurre in unica parola e si rischia di perdersi in una descrizione più ampia.
Si fa comunità e si respira quel pattern che ci connette.